La forma della disperazione

Titolo originale: The Shape of Hopelessness
Il signor C. non dice di essere triste. Non sta piangendo. Ma il suo volto è come pietrificato, segnato da un debole sorriso spezzato, ed io avverto un nodo allo stomaco. La disperazione mi stringe come una morsa. Sono seduta ai piedi del suo letto d'ospedale, nella struttura dove fornisco consulenze psichiatriche. Il signor C. raramente si alza dal letto, intorno al quale pretende che le sottili tendine rosa per la privacy rimangano chiuse, in modo da tenere distanti gli altri tre pazienti che occupano la stessa stanza. L'assistente sociale mi ha chiesto di vedere il signor C. perché sta per essere dimesso, ed è preoccupata per lui. Anche l'aria nella stanza sembra pesante. È difficile muoversi o anche solo respirare, quando non c'è speranza.
Il signor C. ha solo quarant'anni, ma il diabete gli ha portato via una parte di entrambi i piedi e non può più lavorare come cuoco, né occuparsi della madre affetta da demenza. "Ora non ho più nessuno. Anche quando mi prendevo cura di mia madre e avevo un lavoro, riuscivo a malapena a uscire di casa a causa dell'ansia, e trascuravo completamente i miei piedi", dice. "Ho paura di non poter fare le cose di base per prendermi cura di me stesso. Non c'è davvero nessuna speranza per me".
Inizio ad essere turbata. Non c'è modo di aiutare quest'uomo. I suoi problemi non sono risolvibili. Quello che posso offrire è troppo poco, e il mio background è troppo ristretto. Dentro di me avverto persino una piccola scintilla di rabbia nei suoi confronti. Voglio andarmene, ritirarmi nella comodità del mio studio e sedermi coi pensieri non offuscati dalle cose brutte.
Ho avuto la fortuna di incontrare una maestra dell'empatia, un’insegnante di meditazione che ho conosciuto la scorsa primavera in un giorno di silenzioso ritiro. Mentre ero seduta sul cuscino tentando di concentrarmi sul respiro, la mia mente era sprofondata nel dolore per una recente perdita personale. Il dolore era disorientante, la concentrazione quasi impossibile. Il consiglio della mia maestra era semplice: lascia che i sentimenti arrivino, notali semplicemente. Le sue parole erano ordinarie, ma la sua compassione non lo era. Ha accolto la mia tristezza senza battere ciglio, lasciando che risuonasse dentro di sé mentre sosteneva il mio sguardo e sorrideva esprimendo calma e calore. Sentivo il mio legame con lei, creando così un'altra dimensione che permetteva alla mia tristezza di trovare lo spazio per prendere forma; non dovevo sopportare il dolore da sola. Si apriva come una coperta tesa tra noi, e potevo vederlo solo e semplicemente per quello che era. Il mio dolore non era più il segno di una sofferenza inevitabile e infinita; era solo una sensazione che provavo in quel momento.
Ora, mentre siedo accanto al signor C, mi risveglio lentamente dalla trance della disperazione e dalla trappola del mio stesso ego che la sostiene. Non posso risolvere i problemi di quest'uomo, ma questo non è da considerarsi vergognoso. I suoi problemi sono gravi e superarli richiederà molto, duro lavoro da parte sua. Potrebbe essere disposto a fare quel lavoro, oppure no. Io posso offrirgli empatia, compassione e una guida. Queste cose potrebbero non essere sufficienti, ma potrebbero anche esserlo. Mentre ritorno al presente, ai piedi del suo letto d'ospedale, riconosco che all'interno di un'esperienza che sembra un peso si cela un grande privilegio: quello di essere vicino a un altro essere umano.
"Non riesci a scorgere dei miglioramenti. Non hai più tua madre di cui prenderti cura. Non hai più il tuo lavoro, e hai paura di rinunciare a combattere l'ansia. Ricordi quanto era difficile una volta, e sai che lo sarà ancora di più adesso. Devi sentirti completamente sopraffatto, e probabilmente sei terrorizzato e profondamente privo di speranza. È così?"
Mi fa un cenno con la testa, mentre sostiene il mio sguardo, e mi racconta di tutte le cose brutte che gli capitano nei pomeriggi di quiete in quella casa di cura. La visione di trovarsi in un tunnel di irrealtà, di sentirsi quasi fuori dal proprio corpo.
"Provo una grande tristezza nel sentirti parlare così", gli dico. "Allo stesso tempo, sono grata che tu condivida tutto questo con me. Ammiro la forza che ci vuole per essere onesti su ciò che si sta affrontando. E capisco come credere che le cose siano senza speranza possa quasi sembrare una sorta di sollievo. Consente di smettere di lottare così duramente".
Quasi mi interrompe, mostrando più vitalità di quanta non gliene abbia mai visto mostrare fino a quel momento: "Sì! È così tanto, tanto difficile. Odio questo posto, ma tutto quello che voglio fare è rannicchiarmi in questo letto e nascondermi da tutto". E, per la prima volta, inizia a piangere. Fra le lacrime, mi chiede onestamente: "Cosa posso fare? Puoi aiutarmi?"
In questo momento, qualcosa cambia. Non sta ricadendo nella disperazione e nell'impotenza. Mi sta chiedendo aiuto. In effetti, ho molto da offrirgli. "Ci sono strumenti potenti per affrontare la tua ansia", gli dico. E, delicatamente, tenendo d'occhio il suo livello di interesse, gli spiego come l'elusione blocca l'ansia e come la terapia dell'esposizione può ri-addestrare la mente a vivere l'ansia in modo diverso. "Se vuoi", gli propongo, "potrei mostrarti come sfidare sistematicamente le tue paure. È un lavoro molto duro, ma potrebbe aprirti molte possibilità. Vorresti lavorare in questa direzione?".
"Sì, mi piacerebbe", risponde.
La disperazione è una sensazione orribile, non c'è da stupirsi se ci si tira indietro. Quando la accogliamo tra noi la vediamo per tutto ciò che è e solo per ciò che è, scoprendo che esiste anche lo spazio per qualcosa che assomiglia moltissimo alla speranza.
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