Il controtransfert non è una malattia

Titolo originale: Countertransference is not a Flesh-Eating Disease
Tra i miei vari ruoli, mi occupo anche della supervisione dei tirocinanti a livello di master che studiano in diversi ambiti, dalle scuole alternative agli ospedali psichiatrici. Durante le supervisioni di gruppo, discutiamo una serie di concetti teorici e applicati relativi alla pratica clinica. Spesso, il controtransfert è al centro dell'attenzione. Forse questo è dovuto alle loro capacità cliniche ancora nascenti, all’impreparazione o all'inesperienza nell'auto-riflessione, alla mancanza di maturità personale e interpersonale, o a tutto quanto insieme. Nei nostri incontri non siamo mai a corto di contenuti per la conversazione o per gli inevitabilmente dolorosi esercizi di gioco di ruolo che infliggo loro. Tutto in nome della loro crescita, naturalmente.
Con poche eccezioni, i miei stagisti si sono in qualche modo aggrappati all'idea che il controtransfert è una malattia; una dimostrazione, questa, della fragilità psicologica che inevitabilmente porta al degrado psichico, all'incapacità di evolvere in terapeuti efficaci e, chissà, forse al contagio. Credo che queste nozioni apocalittiche derivino in parte dall'origine dello studio del controtransfert in psicoanalisi, con la sua enfasi sulle pulsioni libidiche proibite e profondamente nascoste, sui conflitti irrisolti tra genitori e figli e su altre forze intrapsichiche oscure che cercano sempre la luce e l'opportunità di scatenare il caos nella sfera terapeutica.
Per quanto mi sforzi di dissipare questa nozione, dispiegando gli strumenti più potenti del mio arsenale per essere empatico, essi si aggrappano strettamente alla paura che il controtransfert sia il nemico interno, che cerca di minare, sovvertire e lentamente erodere la loro forza d'animo e la loro fiducia. E, per quanto mi sforzi di dimostrare le opportunità che il controtransfert offre per la consapevolezza di sé, per la crescita personale e professionale e per la guarigione, all'udire quella parola indietreggiano! Forse, dovrei semplicemente chiamarlo Steve.
Due esempi potrebbero aiutare a spiegare ciò che io e i miei stagisti abbiamo sperimentato. Una stagista e madre di un bambino di 9 mesi lavorava in un liceo alternativo. Ironia della sorte, le era stata assegnata una studentessa diciassettenne che aveva partorito pochi mesi prima. Avete capito dove intendo andare a parare? La mia stagista era arrabbiata con questa ragazza che aveva rinunciato alle sue responsabilità di genitore, si era rifiutata di fare esercizi di attaccamento, era diventata sempre più depressa e si era ritirata. La mia allieva sembrava, almeno temporaneamente, incapace di empatizzare perché non riusciva a capire come qualcuno potesse trascurare un neonato quando, allo stesso tempo, lei stessa stava costruendo un profondo legame con il suo bambino molto piccolo. Quando le ho suggerito che la sua reazione negativa nei confronti della sua paziente era radicata nel controtransfert, inizialmente si è tirata indietro, ma con l'incoraggiamento e il sostegno della classe si è aperta quanto bastava per fare delle considerazioni su come la sua paziente l'avesse messa in gioco. La successiva supervisione sul campo ed in classe l'ha aiutata a riallacciare i contatti con la paziente.
Un'altro stagista stava seguendo un ragazzo in età universitaria che aveva vissuto diversi anni di depressione, rifiuto della famiglia, un profondo senso di disperazione, e che aveva alle spalle anche una storia di rifiuto dell'intervento terapeutico. Quando il suo stesso supervisore clinico ha fatto delle raccomandazioni specifiche su come lavorare con questo paziente, il mio stagista ha opposto resistenza, sostenendo che il supervisore non era sufficientemente empatico, che aveva ignorato le sue idee e che aveva intenzione di parlare con il paziente di questioni che il supervisore riteneva premature. Il mio stagista si è arrabbiato sempre più con il suo supervisore, determinato a fare ciò che riteneva necessario e allontanandosi da lui. Questa è stata la prima rottura nel rapporto tra questo stagista e il supervisore, che di conseguenza non veniva più visto come un sostegno. Mentre la supervisione della classe stava avendo luogo, ho suggerito allo stagista e al gruppo che questo particolare paziente potesse innescare in lui qualcosa che riguardava relazioni passate, o anche esperienze della sua stessa vita. Come lo stagista, questo giovane si sentiva imbarazzato e deluso da sé stesso per il fatto di essere forse influenzato dal controtransfert. Avrei dovuto chiamarlo Steve.
Mentre ne parlavamo, lo stagista ha ammesso che, un anno prima, anche lui aveva vissuto un grave episodio depressivo, e che si sentiva incompreso da amici e familiari poiché gli offrivano suggerimenti che trovava distruttivi. "Se solo fossi stato un terapeuta migliore, me lo sarei aspettato", si è rammaricato. Ben intenzionato com'era, questa impostazione non era realistica; fortunatamente la supervisione e la consulenza successive lo hanno aiutato a proseguire nel suo cammino verso la guarigione e la crescita professionale.
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In entrambi questi momenti di supervisione, gli stagisti hanno capito meglio cosa fosse e cosa invece non fosse il controtransfert. Se i nostri stagisti si ostinano a prendere precauzioni per proteggersi dall'equivalente psicologico di una malattia necrotizzante, allora la cautela e le difese vinceranno sulle opportunità di crescita personale e professionale. A volte, le esperienze e le relazioni passate e presenti, dolorose e/o irrisolte, urlano dall'interno per ottenere attenzione, e possono essere anche sbrigliate, se si vuole. Solo così i terapeuti possono, in qualsiasi momento della loro evoluzione, costruire un sano sistema immunitario psicologico.
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